martedì 31 gennaio 2012

chissà se qualcuno mai


Chissà se qualcuno mai

ha piegato e messo via quelle lenzuola

dove ci si è amati per non dimenticare piu?

E senza adoperarle ancora; ritirate come la maglia di Baresi

Chissà se dopo stendendone di altre

tirandole bene senza nessuna increspatura ne piega

chi sapeva ancora lì hai dormito te qui invece io

in quelle lievi impronte lasciate a sedimento sul materasso

L'evoluzione della specie ci ha trasmesso complessità

segni scambievoli d'amore, elaborate alchimie

geometrie di corpi che disegnano incastri

accostando piacere a piacere, affinando il desiderio

grumi di respiri divisi per ordine o confusi nell'amplesso

per poi farsi come respiro spossato del lottatore

Lottatore che un qualsiasi giorno dopo ha mollato la presa

lasciando la i suoi grumi di respiri, gli spasmi, le convulsioni

perchè tu ne avessi cura anche se non lo rivedrai più


venerdì 27 gennaio 2012

Un altro Orhan

"Fin da bambino, per anni ho creduto che vivesse un altro Orhan, del tutto simile a me, un mio gemello, in una strada di Istambul, in un'altra casa simile alla nostra. Non mi ricordo dove e come ebbi per la prima volta questo pensiero. Molto probabilmente, il pensiero si era inciso dentro di me alla fine di un lungo processo, tessuto di incomprensioni, coincidenze, giochi e paure[. .] A cinque anni ero stato mandato in un'altra casa.  I miei genitori, dopo la separazione, si erano incontrati a Parigi e avevano deciso di lasciare me e mio fratello a Istambul. Io ero andato da una zia materna, mentre mio fratello era dalla nonna paterna e il resto della famiglia. Su una parete di questa casa, dove ero sempre stato accolto con affetto e sorrisi, c'era la fotografia di un bambino piccolo, in una cornicie bianca. Ogni tanto lo zio e la zia, indicando la foto dicevano sorridendo "Guarda, quel bambino sei tu"

Quel bambino grazioso, dagli occhi grandi, si, mi assomigliava un pò. Allo stesso tempo però, sapevo che non ero esattamente io. (In realtà la fotografia l'avevano comprata in Europa) Poteva il bambino essere l'altro Ohran cui pensavo sempre, che viveva in quell'alta casa? Anch'io adesso vivevo in un'altra casa. Forse ci ero andato per poter incontrare il mio simile che viveva da un'altra parte di Istambul, ma io non ero affatto contento di questo incontro. Volevo tornare a casa mia, a Palazzo Pamuck. Quando mi dicevano che era mia quella fotografia sul muro, nella mia testa tutto si confondeva: io, la mia fotografia, la fotografia che somigliava a me, il mio simile, le immagini di un altra abitazione si mescolavano e volevo tornare a casa...."
(Orhan Pamuck - Instambul - Inizia cosi)
Io non ho mai creduto che vivesse un altro me da qualche parte però quella dimensione di spaesamento l'ho vissuta eccome. Tutt'ora, la amo, la cerco, la esploro piu che altro. 

giovedì 26 gennaio 2012

Haiku dei branzini


Richard Braudigan a pesca di branzini

R. Braudigan con Greg keeler

Questa è un'invenzione ispirata dai racconti di Braudigan

-Il sole ha le sue lune, gli disse con sguardo assorto guardando il cielo tra i rami del sottobosco. Ha le sue lune, pensò l’altro, come le paludi hanno le loro brume. Boh. Era un giorno cosi e vide una baracca la in mezzo. Si fermarono a guardarla. In un angolo del tetto una lamiera si era staccata. Il vento caldo la faceva sbattere ad ogni folata, tu tun. Il sole ha le sue lune, ripete l’altro mentre con un retino catturava delle mosche. Gli sarebbero servite come esche per la pesca al branzino. Quell’altro ancora pensò che non avevano portato le canne, cioè le canne si ma non quelle da pesca. Passarono accanto alla baracca con la lamiera nell’angolo del tetto che sbatteva. Dietro, a poca distanza, c’era una latrina malmessa e scrostata. La porta era spalancata. Dentro non c’era niente. Quello che aveva detto che il sole ha le sue lune, disse fermandosi che la latrina, a guardarla sembrava dirgli “Hei, il vecchio che mi ha tirato su a tavole e chiodi, l’ha fatta qui dentro 9745 volte e ora è morto e non voglio che nessuono mi violi. Era un brav’uomo. Mi ha trattato con cura e affetto. Quindi, se vi viene in mente, vedete di farvela passare. Se vi occorre, andate in mezzo i cespugli come i cervi.”
“Chiedi allora alla latrina se questa è la baracca del signor Hayman”.
“Dev’essere questa si. Abbiamo fatto la strada segnata sulla mappa.”
Non quello delle lune, l’altro non lo ascoltava piu di tanto, ma era buffo. Poi, dall’alto videro sotto il lago. Era come una ghirlanda brillante. Guarda laggiù, gli disse indicando con un dito. “Allora dev’essere questo il posto” disse girandosi mentre si grattava la testa. “La c’è la baracca, la sotto c’è il lago e in torrente dev’essere qua vicino… diamo un’occhiata. “ I due si allontanarono verso est rizzando le orecchie. “Si dovrebbe sentire il rumore dell’acqua” disse quello delle lune. “E’ un torrente no?” Presero un piccolo sentiero che si vedeva appena e lo seguirono. Camminarono tra i raggi di sole che s’infiltravano tra i rami. La storia che gli avevano raccontato era che, nell’anno che il signor Hayman era morto, i branzini non avevano piu risalito Hayman Creek. Era successo che avevano preso a salire quando lui era la.. Lui ne prendeva uno due ogni tanto. Li mangiava crudi assieme a del grano macinato.  Avevano dato il suo nome al torrente. . Morto lui, nessuno ne aveva piu pescato di branzini.  Qualche anno dopo la sua morte, un paio di guardiapesca rasalirono il torrente con un secchio di branzini da vasca da bagno. Volevano provare a ripopolare dei branzini quell’acqua dimenticata. “Tanto vale buttarne qualcuno qui”, disse uno dei due. Perché no? Disse l’altro. Fatto sta che, buttati i branzini dal secchio nel torrente questi, dopo due secondi erano gia girati con la pancia all'in su, morti, che scivolavano verso il lago nella corrente. Non c'è stato verso di vederne piu di branzini da quelle parti, dopo la morte del signor Hayman.
Intanto quello delle lune insieme al suo amico trovarono il torrente. Loro erano di quella genia de "I vagabondi del Dharma", dei ragazzi cresciutelli che amavano il jazz e la poesia. Andavano a pesca del branzino in America e gli era venuta questa fissa degli haiku. Secondo complicati calcoli astronomici e suggestioni alchemiche, avevano individuato nell'Hayman Creek il nucleo della legge cosmica dell'haiku. E cosi si sedettero sopra un masso per uno sopra il letto del torrente Hayman Creek. Hayman, l'uomo che aveva fatto risalire i branzini fin la sopra quel torrente. E cosi, dopo essersi guardati un po in giro, cominciarono ad inventarsene qualcuno.
(simurgh & Richard Brautigan)

Qua ci sono degli haiku, anche qualcuno sbagliato, ma non importa. Sono affari loro. Uno scambio tra due. Questo racconto si ispira a "Pesca alla trota in America" di Richard Brautigan che con i ragazzi del dharma ci aveva a che fare, visto che era beat generation. Questi haiku sono alcuni di quelli che non  potrebbe scrivere chiunque

Eagles - Desperado

Haiku

Un cielo scuro
attraversai il fiume
Branzino guizzò

Radi salici
Sull’argine del fiume
palpebre chiuse

Palpebre chiuse
Sul balcone del letto
pessimo vino

Branzino guizzò
Sull’orlo del fiato
Buona giornata

Mi manchi oltremodo
Balcone radioso
tempo immoto

Tempo immoto
Claudica la tremula mente
Inzuppa biscotti

Biscotti inzuppano
Nella tazza respirano
Liete le ore

Raggiungimi ai pozzi
Sul dosso ancheggia il cammello
Turba il fagotto

Sveglia dal sonno
respira la cetra sotto le mura
soffia il fagotto

Dentro una gabbia
un canarino al sole
arruffa le piume 
  
Una grossa mano
afferra canarino giallo
mette in bocca

la pelle trema
sdoma ritorna
da un'altra porta
 
pozzanghere scure
siepi altezzose
sgroppa la mente

                                                  "Tra Lee Masters e Kerouac, Brautigan si muove con l’autorevolezza dello sperimentatore cosciente di offrire attraverso una storia di tutti i giorni, semplice e conosciuta quale l’andare a pesca, magari in autostop, una chiave di lettura della realtà capace di sezionarla, scomporla e ricomporla a propria misura, sia pure anche per divertirsi a renderla indecifrabile per sé e per gli altri."

mercoledì 25 gennaio 2012

Ormai è tardi


Li tenevo chiusi ancora, trattenendo il bulbo come un pesce in fondo ad una pozza che si gode il sole, immobili dietro il loro sipario cercando di rievocare le dita che li avevano chiusi. Stamattina non volevo aprirli, come se tutto potesse restare dietro le palpebre, come un vento leggero tra l'erba tenerli. Immaginarle le dita, il tocco che posa, invernate d'estate che par primavera e poi ancora inverno d'estate, e la pelle del dito, le impronte disegnano un labirinto dove inoltrarsi e non puoi aprirli gli occhi, devi solo sentire, ascoltarle le dita, il loro braille che suona.  Le premevi appena, con inconsistenza, come una cosa frugale da non badarci, però a me sembrava non fosse altrimenti. Tienimmi la dietro, mi hai detto con il tuo braille fatto di labbra. Li tenevo chiusi e tu eri la, ancora, con le dita sulle palpebre, sentivo. Non mi fidavo però. Mi guardavi, sentivo. Eri in piedi. Perchè? Sorridevi. Ho fatto finta di niente. Si sentiva un elicottero passare li fuori nel cielo. Poi ti sei messa a ridere. Che c'è? Eri bella, splendente. Io allora ho stretto le labbra. Facevo le rughe e tu prendevi un pò paura però. Se non ti guardo, tu sai che perdi man mano energia. Lo sentivi. Guardami dai, sembravi dire. Io ogni tanto, scoprivo una piccola fessura, un appena invisibile. Un vederti da dietro che non passava neppure in quella crepa negli occhi, le ciglia impastate. Quando è cosi dovremmo scappare, mi hai detto. Scappare uno dall'altro. Se lo sapevo prima, mi hai detto, se lo sapevo, scappare per non incontrarsi, neanche la prima volta, niente, neanche incontrarsi. Ma ho paura ormai, dicevi, ho paura che sia tardi. Non c'è niente da fare, ormai. Ormai è tardi! 
  
Vedi poi?
Io li ho tenuti chiusi gli occhi
Ogni tanto appena una sfesa (fessura)
Tu dicevi ma daiiii
Mi dicevi perdo potenza
Poi, pian piano ti ho visto diventare cosi
Mi guardavi con tenerezza
Sembrava capissi
Dovevamo fuggire ma ormai
Ormai è tardi

domenica 22 gennaio 2012

Cortazar negli interstizi



Venerdi mattina, in una sala d'aspetto, finivo un libro di racconti di Cortazar: "Ottaedro" (Otto racconti come otto facce di un nitido poliedro) Otto per otto: l'infinito del sasso nel cielo. La sala d'aspetto era quella del servizio di alcologia. Accompagnavo uno per lavoro e aspettavo arrivasse il medico. Una situazione Cortazariana, si puo dire. L'ultimo racconto ha il titolo "Collo di gattino nero". Mi mancavano due pagine. L'avevo ripreso a questo punto:
" L'abbracciò stretta, baciandola senza sapere di che o perchè doveva calmarla, le mormorò parole di conforto, la stese sotto di sè, sopra di sè, la possedette dolcemente e quasi senza desiderio dal profondo di una lunga fatica, la penetrò e la montò sentendola contrarsi e cedere e aprirsi e cosi si così, si, cosi, ecco si...."e cosi via" . Mi ha sempre incuriosito e, spesso, in situazioni analoghe mi immagino i pensieri nelle teste degli altri. Non so se gli altri fanno lo stesso e si inventano storie parallele procedendo dalle facce e dalle espressioni, però sarebbe stato difficile immaginare che ero nel pieno di un tragico sconvolgente amplesso. Una tipa giovane, irrequieta, si alzava dalla panca e andava in giro. Richiamata diceva che doveva andare in bagno. Aveva la faccia di una che era fatta, con le palpebre gonfie e mezze abbassate, le parole le uscivano impastate. Gli altri facevano finta di niente. Seduti, si guardavano le unghie o le scarpe. Non avevano dei racconti di Cortazar con sè ma, penso, senza saperlo Cortazar rovistava nella loro testa. In quel corridoio passava della gente che conoscevo di vista, gente che lavora in ospedale. Provavo imbarazzo a trovarmi in quel posto. Una sala d'aspetto dovrebbe avere una praivasi no? Invece no, la in mezzo, fuori del servizio di alcologia. L'imbarazzo perbenista era che questi potessero pensare che ero finito in quell'inferno. Cortazar parte spesso da situazioni analoghe, improbabili. Nelle intercapedini del reale, dicono in quarta di copertina. Pensavo di adottare intercapedini come nuova categoria da inserire nei tag dei post. Allora ero la con questo pensiero un po paranoico, di quelli che non confessi, però mi ci attorcigliavo, lo sviluppavo ascoltandone la fenomenologia interiore che prendeva una piega sudamericana, tra il magico e l'allucinato, irreale fondamentalmente, però lucida, estremizzante. Ero con lui, e mi sentivo come tra borges e kafka. Una signora con il camice bianco sporse la testa dalla porta del servizio e disse: "Signor Barzi?" e guardò i presenti. "Sono io"e mi alzai. Feci cenno a quello che accompagnavo di seguirmi. Entrammo nello studio e ci sedemmo davanti alla scrivania. Quello che accompagnavo aveva una cartella che passò al medico. Questi la apri, ci diede una scorsa, poi alzò la testa, mi guardò e disse:"Abbiamo dei problemi signor Barzi". Ero io quello che aveva dei problemi. Ero io, non quello che accompagnavo.
Cortazar devi leggerlo o sei morto
Scava tane, cunicoli diventa bestione
di sogni che entrano in altri sogni
cominciando con uno per non finirli mai piu
come qualcosa che è li, ma dove? ma chi?
e non capisci piu niente se mai qualcosa
c'è da capire e se credi di averla capita
qualcosa nella vita ma cosa? ma chi?
che se c'è qualcosa da capire comincia da qui
comincia col trovarti in un avamposto
a sentire il fiato dietro la nuca
le dita intrcciarsi ad altre mani sconosciute
ad avere cavalli che di notte ti entrano in casa
a capire che niente è vero se non è un riflesso
un nulla costruito attorno ad un gioco che salta
gli innumerevoli riflessi di un ottaedro di cristallo
una voce fatata che ti ribalta dentro un gioco
dove niente è innocente men che meno la mente
che se la incontri non puo che essere un incontro fatale
dove dietro le apparenze niente è piu banale
e sotto quel velo che chiamiamo del reale
si nasconde l'imprevisto che insomma
mi sa che è meglio non portarselo in borsa
se devi andare per sale d'aspetto, in tram o in treno
"Impossibile fare qualcosa, solo guardarla per l’ultima volta all’incrocio dei due ingressi, vederla allontanarsi, scendere la scala. La regola del gioco era questa, un sorriso nel vetro del finestrino e il diritto di seguire una donna e sperare disperatamente che la sua linea coincidesse con quella che avevo deciso io prima di ogni viaggio; e allora - sempre, finora -, vederla prendere una diversa direzione e non poterla seguire, obbligato a tornare al mondo di sopra e entrare in un caffè e continuare a vivere finché poco a poco, ore o giorni o settimane, la sete reclamando di nuovo la possibilità che tutto coincidesse finalmente, donna e vetro di finestrino, sorriso accettato o rifiutato, coincidenze di treni e allora finalmente sì, allora il diritto di avvicinarmi e di pronunciare la prima parola, spessa di tempo ristagnante, di interminabile vagare nel fondo del pozzo fra i ragni del crampo. "(pag. 38 da "Manoscritto trovato in tasca")

mercoledì 18 gennaio 2012

Billie Holiday - Fine and Melow


Lester non era il suo tipo. Che non continuasse a fare quella faccia da risentito. Non voleva saperne delle sue prediche. La doveva capire questa storia. Lei non era allora una donna per lui e non lo sarebbe stata mai. Doveva levarsela di dosso quell'espressione che aveva per lei.
Si formarono nella testa di Billie, questi pensieri, non attraverso delle parole ma in un un altrettanto risentito sentimento. La infastidiva a morte vederlo con quell'espressione sulla faccia. Erano stati a letto assieme, l'avevano fatto si ma che voleva dire? Lui era il piu gran sassofonista al mondo e tra di loro c'era un'intesa impareggiabile ma non ci sarebbe mai stata assieme a lui, il presidente Lester.
Lester non voleva suonare. Non gli veniva niente dal cuore. Si era messo in disparte, seduto ad un tavolo e diceva che non avrebbe suonato. Stava male diceva, aveva la febbre. Andarono a dirlo a Billie e lei sbuffò. Che si credeva? borbottò Billie tra sè. C'erano i giganti quella sera a suonar per lei. Oltre a Lester c'erano Ben Webster, Gerry Mulligan, Roy Eldrige, Coleman Hawkins , o no?
Lester si incazzava ed era risentito per come si era ridotta. Loro sarebbero sempre stati, piu che amici come un'unica nota spaccata in due. Lester era arrabbiato per come si era ridotta la sua Lady Day. Per questo il loro sodalizio si era incrinato e lui non voleva assistere alla sua autodistruzione.
Va consumata la voce, come la vita
quel filo che ti resta, sottratto al fiato
dove convergono le vie dello scambio
ad officiarne il rito sacrificale e la forza
che imprime movimento alla ruota
che rompe i silenzi dei venti e della vita
Billie inizia a cantare - Il mio uomo non mi ama mi tratta oh, così male. Il mio uomo non mi ama mi tratta male. Lui è l'uomo più terribile che ho mai visto...- La canzone è "Fine and Mellow". Parla di infedeltà. L'aveva scritta lei che, di infedeltà ne sapeva un bel pò. C'è la dolcezza di chi è perduto nei suoi  occhi, di chi ha visto e taciuto. Il jazz è musica che conia l'intesa, l'altro da sè, l'empatia. Improvvisa. E sono folgorazioni effimere che il vento un'istante dopo porta via, irripetibili, come un bacio rubato. La perfezione non dura mai, se non nell'istante in cui consuma. Ben Webster attacca a soffiare caldo il suo assolo blues e Billie ammicca, gli fa le moine, come una gatta e vuol far un po dispetto a Lester e al suo muso duro...fanculo và.
Lester si alzò avvicinandosi alla band. Ben aveva lisciato il pelo a quella gatta con quell'assolo. Si siede un'attimo nella sedia di quello studio televisivo. Lester si alza quando ancora Ben sta suonando, come a dire tocca a me . In quella torbida e scura voce, quanta luce. Ha gli occhi gonfi Lester, gonfio è il suo cuore colmo, colma è la coppa e par traboccare, la corona è l'orlo, come l'eterna ghirlanda brillante, è cerchio che si chiude, anello che promette e si dona. Lester soffia nel sax quel traboccamento. Non è neanche sta gran cosa, cosi, ma qualcosa in quell'istante accade: il sublime. Billie fa un duetto con i suoi sguardi e le poche note soffiate da Lester. Poche note strascicate, che dondolano ruffiane come un gatto che si struscia. Non c'è niente da esibire, in quella voce spenta, quella cenere ha conosciuto il fuoco degli dei. Divampa in pochi attimi, l'assolo muto di Billie, le ciglia che si inarcano di Lester come a sancir l'intesa e la tenerezza che di loro sanno, mentre la testa un po sprofonda nelle spalle, come a dire - Che ci posso fare?-.

Il sublime si sovrappone alla necessità
e cosi sancisce il suo inganno, chiude il cerchio
in poche note ciò che è perduto, dentro gli occhi
deve rinunciare all'unicità di ogni altro
e si sancisce la necessità dello scambio
Ciò che esiste una sola volta e per poco tempo
non puo essere commisurato ad altro tempo
Una vita breve, maledetta e irrecuperabile
Della vita poi rimane solo una lunga stanchezza.
La vita, pare dire, è irreparabile e irripetiile.
Non ci resta altro vecchio Lester, ne a me ne a te. 
Lester morirà due anni dopo. Si chiuse nella sua stanza senza parlare piu con nessuno. Stava la a guardare fuori dei vetri la strada, la gente che passava, il suo sguardo perso, la bottiglia in mano. Billie quattro mesi dopo, a 40 anni. Senza un soldo nel suo conto. La cirrosi. In quegli istanti del video, in pochi attimi una vita intera. «Lady Day got diamond eyes, she sees the truth behind the lies». (U2) Angel of Harlem

La parrucchiera di Dresda, di Patricio Pron. (2 parte)

Ci sono storie cosi, senza storia. Fatte di scarti minimi, un pensiero, una sensazione, un sentimento fugace. Storie che sollecitano l'osservazione di sè, una sensibilità al dettaglio. Un'esercizio di stile minimalista che, personalmente mi invischia. Come fare un disegno che ne colga un'essenza, una rappresentazione situazionale, un'emozione. La solitudine, in questo caso. Questo racconto è una sorta di riduzione di uno di Patricio Pron. "Il taglio di capelli". (1)

(Illustrazione di Manuele Fior)



Tom Waits - I want you

La parrucchiera si fermò. Il suo sguardo era distratto. La vide guardar fuori in strada.
- Non penso che essere curiosi sia una cosa che ti fa fare cose rischiose - disse poi.
- Beh,- disse la ragazza, sorpresa che avesse ripreso il discorso. - Mi viene un mente un gatto che si specchia nell'acqua e, curioso di vedere un'altro gatto che lo guarda, si tuffa nell'acqua per giocare o attaccarlo e, cadendo poi annega. -
La parruccbhiera ci pensò un po, poi disse: - Mi viene in mente che quando ero piccola, in polonia, mio padre annegava sempre i gatti piccoli, che la nostra gatta sfornava ogni stagione. Li metteva dentro un sacchetto e li gettava nel canale.-
La ragazza vide gli occhi della parrucchiera intristirsi. Malinconia e dispiacere erano sensazioni che conosceva.
- Se quei gattini piccoli avessero potuto vedersi specchiati nell'acqua, disse la ragazza, magari potevano pensare che andavano a giocare con altri gattini, invece di morire.-
- Hum...è una bella idea. Avrebbe reso loro la morte piu sopportabile. - disse la parrucchiera sorridendo. - Non so se ai gatti dispiaceva di morire peò, continuò la parrucchiera, se ci pensavano voglio dire -
Chiacchierarono un pò cosi, facendo strane congetture. La ragazza pensò che non aveva mai parlato cosi tanto con una persona, in germania. Poi rimasero a lungo in silenzio. Il movimento veloce delle forbici, quelle mani operose. La ragazza pensò per un attimo che la parrucchiera fosse la sua unica amica, in quella terra cosi estranea dovve si sentiva cosi sola. Se la solitudine parlava qualche lingua, avrebbe parlato il tedesco pensò. Poi pensò che le sarebbe piaciuto chiedere alla parrucchiera se le andava di andare a bere un tè con lei qualche volta, da qualche parte. Le sarebbe piaciuto ma non glielo avrebbe chiesto. Di che cosa avrebbero parlato? Non avrebbe saputo cosa dirle. Allora si immaginò la scena di loro due in un locale a stare li assieme a raccontarsi delle cose. Le venivano in mente le domande piu futili, le sue storie senza interesse. Non avrebbe saputo come interessarla.
Pensava a queste cose, senza accorgersi che intanto la stava spazzolando e le tirò via la mantellina chiedendogli se il taglio le piaceva e le mostrò con lo specchio la nuca. -Si mi piace. Mi piace come me li taglia. Lei è brava. -
Le disse il prezzo e le scrisse sul blocchetto la ricevuta.
Non sapeva neanche lei come le venne la forza o il coraggio di chiederle - Mi piacerebbe, se  andasse anche a lei, di andare a prendere un tè assieme. Non conosco nessuno in città e cosi, per fare due chiacchiere, stare un pò in compagnia...- La parrucchiera la guardò prima perplessa, poi parve sgomento quello nel suo sguardo, che si fece in breve sospetto e diffidenza. Non  le rispose neanche e si avvicinò alla porta per aprirle. Suonò il campanello. La ragazza si sentì morire dalla vergogna. Arrossì e si allontanò sulla strada. Pensò che non avrebbe neanche piu avuto il coraggio di tornare da quella parrucchiera. La parrucchiera la stava guardando dalla vetrina allontanarsi. La ragazza pensava al proprio errore. Che se fosse tornata la magari non avrebbe neanche voluto tagliarglieli ancora o, l'avrebbe fatto malvolentieri. Le venne da piangere.  Tornò a casa. Non le accadde piu niente poi, quel giorno a Dresda.

Lui è Patricio Pron clicca  anche QUA' (un argentino. Non c'è niente di tradotto di lui in Italia, credo. Questa è un po una libera riscrittura.
"La Capra" di Umberto Saba

Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
Sazia d'erba, bagnata
dalla pioggia, belava.
Quell'uguale belato era fraterno
al mio dolore. Ed io risposi,prima
per celia, poi perché il dolore è eterno,
ha una voce e non varia.
Questa voce sentiva
gemere in una capra solitaria.
In una capra dal viso semita
sentiva querelarsi ogni altro male,
ogni altra vita. 

venerdì 13 gennaio 2012

chet




chet

Zampe che spillano orme


lasciate sull’erba, tra i sassi



Negli Appennini vastità sconosciute



disperdono un canto lasciando una scia



molecole, atomi nelle scie luminose



che lui annusa con il naso nell’aria.



Tu tun









Zampillano allora nei suoi pensieri

pulsando all’interno di cerchi di luce

desideri, ciurme, cavalli al galoppo.

Con lo stivale raschia la terra

Tu tun




Traccia un segno, un cerchio, una freccia.

Sulla spalla ha una sacca di pelle

e dentro una tromba, un coltello

un quaderno, una scatola di colori

un sacchetto di perle


Tu tun



La lama che incide sul tronco, il corvo che stride.


L’uomo cerca nel bosco

tra gli arbusti qualcosa di fosco

Una casa diroccata, forse una pieve

dei sassi, una roccia. Qualcosa fu scritto,

Un monaco fu visto, silenzioso aggirarsi
.
Ombra immobile, visione dentro una stalla

La trovò ai margini del bosco

Tu tun



Vecchie pietre, il portico, l’edera dentro le stanze

Nidi rinsecchiti abbandonati dalle rondini

Che fuggono sapendo gli scricchiolii delle travi che crollano

Era la casa dove era nato e, prima di lui suo padre

Li dentro fu sgravato dalla madre poi morta



Cosi, ancora piccolo parti con il padre per le Americhe


Tu tun

Imparò il suono della sua lingua suonando una tromba

Come to mu arms, my beamish boy!

(Vieni fra le mie braccia mio radioso fanciullo)

Tre pistoni, tre colpi, infinite combinazioni suonava.

“Gödel, Escher, Bach: un'eterna ghirlanda brillante”

Smarrute note gli sgrillavano dentro d’etermo nel suono

Rintronò un inno per ricordarne la gioia

Tu tun

La tromba sapeva suonarla a memoria
Parole  scritte di suoni, partorivano inutili sogni



Eins, Zwei! Eins, Zwei! 

Und durch und durch

L’uomo riprese a camminare.

Nella sacca la tromba
.
Tu tun tu tun tu tun tu tun tu tun tu tun


lunedì 9 gennaio 2012

La parrucchiera di Dresda 1 di Patricio Pron


Ci sono storie cosi, senza storia. Fatte di scarti minimi, un pensiero, una sensazione, un sentimento fugace. Storie che sollecitano l'osservazione di sè, una sensibilità al dettaglio. Un'esercizio di stile minimalista che, personalmente mi invischia. Come fare un disegno che ne colga un'essenza, una rappresentazione situazionale, un'emozione. La solitudine, in questo caso. Questo racconto è una sorta di riduzione di uno di Patricio Pron. "Il taglio di capelli". (1)
(Illustrazione di Manuele Fior)
La parrucchiera di Dresda
Le ciocche di capelli neri cadevano sulla mantellina soffici come amputazioni di nuvole nel cielo del sud. In quella germania gelida a cui non si abituava, taglairsi i capelli le pareva forma d'integrazione. Che potesse sentirsi meno sola e lontana da casa. Casa a cui non sarebbe piu tornata. Sua madre, tra l'altro, non le avrebbe mai permesso di tagliarsi la sua bella chioma fluente e nera. 
La prima volta che era entrata da quella parrucchiera non c'era nessuno, come oggi. Aveva un aggeggio sulla porta che suonava quando qualcuno entrava. Già questo l'aveva un po intimorita. E poi l'aveva guardata storta la parrucchiera bionda, dicendole che lei tagliava capelli solo ai maschi. La ragazza aveva insistito educatamente e la parrucchiera fu mossa da una sorta di compassione. D'altronde li voleva corti, da maschio. Voleva darsi un segno simbolico di cambiamento. E poi, i suoi erano neri. Questo aumentava in lei il senso di stridimento, di attrito, quel sentirsi esclusa pensando potessero essere visti con fastidio. Questo pensava la ragazza. In quel posto erano, ovviamente, tutti biondi.
Ora ci andava quasi ogni mese a sfoltirli. Ci andava con soggezione. La parrucchiera le metteva la mantellina senza neanche salutarla.  Lei ammirava le sue mani veloci e sicure che le ronzavano attorno alla testa come api operose. Questo la incantava. Erano mani piccole e agili. Le davano un senso di sicurezza e protezione, quasi paterno. Era tutto cosi diverso, aveva pensato la ragazza quando decise di andare dalla parrucchiera, che doveva pur dare un segno a quel cambiamento. Per lei era come una prova, un rito che sanciva un traghettamento, un transito. Pensava cosi di sentirsi poi piu forte e sicura. Pensava addirittura di tingerseli un giorno, di farsi bionda. La parrucchiera non era tedesca, era polacca. Con lei avrà scambiato in tutto cinque parole ma lo aveva saputo da quella che gliel'aveva consigliata. Qualcuno passò davanti alla vetrina e la ragazza si girò istintivamente. La parrucchiera avverti il movimento e le caddero le forbici sulla mantellina. - Mi spiace - disse la ragazza. - Mi scusi lei - rispose meccanicamente la parrucchiera, riprendendo 
le forbici dalla mantellina e tirando via i capelli dalle lame con i denti a punta. Riprese a tagliarli senza dire niente. La ragazza avvertiva il torpore che le produceva quel suono ipnotico delle forbici e il movimento delle mani della parrucchiera bionda. 
- La curiosità uccise il gatto. - disse  tra sè e sè la ragazza, come a volersi giustificare per il movimento maldestro che aveva compiuto con la testa. La parrucchiera smise di tagliare, lasciando le forbici sospese in aria. - E' un proverbio che si dice dalle mie parti...l'ha mai sentito? - continuò la ragazza. - No. - disse la parrucchiera. - Cosa vuol dire? - chiese alla ragazza. La ragazza parve riflettere. - Che il gatto è curioso, penso. - Non ci aveva mai pensato a cosa volesse dire. -  Allora la parrucchiera gli chiese: - Allora chi è curioso muore? - La ragazza non sapeva cosa risponderle. Le disse che - la curiosità ti fa fare cose rischiose - disse.
La parrucchiera rimase in silenzio, come la trovasse banale, e riprese a tagliare.
Proprio per questo alla ragazza piaceva la parrucchiera, per questa spiccia serietà, senza troppe confidenze. Come la prima volta, quando gli aveva detto che tagliava solo agli uomini, ecco, perentoria, inflessibile, quasi orgogliosa, caparbia è la parola giusta. La ragazza lo riteneva tipicamente slavo quel modo, pensò. Glieli stava tagliando sulla nuca e, alla ragazza piaceva quando sentiva le sue dita infilarsi tra i capelli. Chiudeva gli occhi. Pensò che avrebbe dovuto aspettare un altro mese prima di tornare. Si vergognò di questo pensiero. Non era mica una sua amica, si disse. Eppure le sembrava la persona che sentiva piu vicina, almeno li, in germania.
(continua) 

(1) Pubblicato nella rivista "Internazionale"
Lui è Patricio Pron clicca  anche QUA' (un argentino. Non c'è niente di tradutto di lui in Italia, credo. Questa è un po una libera riscrittura.
Troverò il tempo, magari scrivendolo nei commenti, di sciogliere le sensazioni che mi ha dato questo racconto. Che faccia.





sabato 7 gennaio 2012

Lady & Bird


Lady & Bird racconta la storia di due bambini intrappolati nel corpo di adulti che preferiscono non comunicare con un mondo che non possono capire.
Quel che mi resta alla fine è una sensazione terribile però. Dolcissima e sognante si, ma mi sconquassa: la percezione autistica, il silenzio che mi difende e annega. Un sogno che si fa spaventoso.
Bird, non riesco a vedere una cosa
E' tutto nella tua mente
(Il testo lo metto nei commenti)







Mi ci è voluto del tempo per capire
Tu sei un uccello ma non puoi volare
Tu sei Lady e puoi solo sognare
Cosi ci ha detto a noi il ragazzo
Voi non potete vedere ne sentire
Tutto è nella vostra mente, solo là.
Ma io non riesco a vedere una cosa
E' tutto nella tua mente, solo là
Non verrà nessuno a trovarci allora?
No, siamo soli. Tutto quà. Sono tutti adulti.
Noi veniamo da fuori. Tu sei un uccello?
Sento, quel che sento, sento. Senti tu?
Proviamo ad urlare. Non c'è altro da fare.
Proviamo dai aaaaaaaaaaaaahh
                     aaaaaaaaaaaaahh
                     AAAAAAAAAAAAAHH
Non ci sente nessuno, vedi?
Si può vedere qualunque cosa
Si può rimanere sempre gli stessi
Cosa devo fare? Dove devo stare?
Resta dove rimani. Stai con me.
Lady?
Si?
E' freddo
Vuoi che ti stringa?
Si
Mi senti? Ti scaldo?
E' tutto solo nella nostra testa, solo là.

Guardami prima di andartene
Ci sono foglie cadute sul mio cuscino
Piume di uccello
Guardami prima di andartene, guardami
(Remix di simurgh)