L'altra sera tornavo in macchina dal lavoro e
prendevo degli appunti sul cellulare. C'e
una luna ottomana Una luce sultana. Sdraiata
supina si regge appoggiata su di un gomito, diafana. Luna magra la luce di un
abat-jour coperto da veli damasco. È intimo il cielo con voce di soprano canta
sommessa qualche aria dalla Bhoeme nel suo salotto di trine, scalda un pò dal
gelo come una sottoveste color perla che gli scivola sulle cosce. Fa un po la
puttana risentita per il sole di questi tempi freddo con lei e così intanto
solleva maree, sposta le elissi cosmiche, ci rimescola l'umore, il vino nelle
botti, i fluidi femminei gli sgravi dei parti cosi, tanto per giocare. Tira su
sempre qualche casino. Com'è volubile e bizzosa la luna. Una cavalla nel cielo
Sembra stia ferma ma scalpita e sconbussola la strategia degli astri. Chissà
perché sennò poeti naviganti santi e amanti da sempre la guardano traendo
indicazioni per tragitti misteri spiriti e velieri nel cuore che gonfiano vele
di desideri ed immaginazione E poi via, che andavo avanti. Ci metto quasi
mezz'ora a far la strada ma mi son fermato al Foster per lo spritz e alla luna
ho detto vai, vai a cagare adesso, anche te, luna ottomana.
"La luna ha chiesto al
corvo di fare un piccolo show Nel crepuscolo confuso color latte Nessuno lo doveva sapere"
La citazione proviene da questa canzone di due
sorelle, le CocoRosie e dal blog di teti che ne traduce il testo. Però il
suo blog non si vede Il testo lo metto nei commenti
C'è questo antro dell'inconfessabile. In fondo, segretamente, uno cosi che scrive delle poesie quando gli viene o per passatempo, anche se apertamente lo nega e dice che è solo un vezzo, che non è roba da cow boy poi, nel suo intimo infantilmente si compiace. Di suo anche si deride però, sotto sotto quel titolo è figlio della bramosia del vanto: poeta. Poeta di che? Beh cosi, senza offendere.
Anche in paese, l'altro giorno che ero la seduto fuori "Alle Bricole", al tavolo lungo il fiume, succede che si trovano questi personaggi anche, gente tenuta di conto che passa un'ora assieme a dir di questo e di quello, come succede allora me lo chiedono.
Il fatto è che, siccome mi si vede la spesso che scrivo sui tovagliolini di carta o su un notes allora uno si fa un'idea. Sarà anche perchè poi ne hanno appese un paio, una che avevo scritto che me l'aveva chiesta la Nutria, e io ho scritto la poesia Nutria. La Nutria è una tipa che va ad aiutare in quel bar. Non si offende se la chiamo cosi. Una tipa spiritosa che gli piace scherzare. Sarà per questi fatti e perchè altri in paese scrivono, che me l'hanno chiesto. Ho pensato che Casier sia come Sant'Arcangelo di Romagna (1). Che ci sia qualche cosa nell'aria. Uno va per strada o è al bar o nell'orto e gli viene un pensiero e l'urgenza di scriverselo. Sono abituati cosi fin da piccoli. Sarà anche spirito di emulazione. Oppure che se vai in osteria li trovi la a parlar di poesia o a declamarne beh, qualche proselito lo fai. Ma Casier non è mica Sant'Arcangelo di Romagna eh?
Insomma mi hanno chiesto: Ma ne fai uno?
(La nutria)
Ecco, io mi son sentito un millantatore. Poi faccio la parte del modesto, che dice di no ma è come dicesse ne si ne no. Dico no no, non son capace. E fai le facce.
C'è da provar vergogna poi, a pensarci sopra. E' una cosa cosi infantile e immatura. Io non so quanti uomini adulti abbiano ancora questi pensieri legati ad ambizioni puerili e sogni da ragazzino, che non dicono poi a nessuno. Non so.
Cosi quando mi hanno chiesto del libro e delle poesie mi era venuto da dire questo:
Io sono solo un bambinetto che gli vien da piangere.
Voci - L'acqua (Poesie: T. Guerra, Raffaello Baldini, Nino Pedretti)
(1) Santarcangelo di Romagna è terra di poeti,: Raffaello Baldini, Tonino Guerra, Nino Pedretti Gianni Fucci, Giuliana
Rocchi
1938 La mèstra ad Sant´Armàid dal vólti, e´ dopmezdè, la s céud tla cambra e la zènd una Giubek. La n fómma. Stuglèda sòura e´ lèt la guèrda ch´a s cunsómma. U i pis l´udòur. Dal vólti u i vén da pianz.
1938La maestra di Sant´Ermete delle volte, il pomeriggio, si chiude in camera e accende una Giubek. Non fuma. Sdraiata sul letto la guarda consumarsi. Le piace l´odore. Delle volte le viene da
piangere
Il presunto poeta, quà si esercita nell'autoavvilimento, nello sconforto e nella demolizione per inclinazione nichilista sua personale.
In miniera, avrebbe detto mio nonno, sei anni nel pozzo. Quello è l'inferno. Vedrai che ti passa.
Brutta razza i poeti
(Vil razza dannata, deve aver detto qualcuno)
Mi deposito per caduta
lenta, sul fondo, avverto l'adagio
dell'essere solo un sedimento
che annaspa nel fango del fondale
e là, nel profondo
che ancora sprofondo
Per inerzia sublime
mi decompongo
Eseguo la nemesi
in forma privata
alle mie colpe
Un atto covato
trasforma in mandato
L'esecuzione uno stillicidio
Un lento esercizio
si manifesta
nei giorni di festa
C'è un godimento inconfessato
Una spermitura del frutto
lasciato a marcire sull'albero
Distillazione per dense gocce
di bile antropomorfa
nel desiderio si sentirsi immolare
e mica sentirsi immortale.
E' questa la dannazione
del voler emulare
il poeta maledetto?
Un Rimbaud della piana.
(simurgh )
Lo scrivevo sul cellulare, tornando a casa ieri sera dal Foster. Avevo anche perso a biliardo malamente.
A lavorare in miniera
Sei anni!
Vediamo o no se ti passa
Per me devono essere
i canditi e l'uvetta dei panettoni
per me
Ogni anno a natale sta storia.
Anche l'intestino
un sacco di aria
Anche i cardi possono essere stati
Come mai non se li cucina
piu nessuno i cardi?
Non hanno voglia a star la a curarli (pulirli)
ha detto il fruttivendolo
che passa in via Bachelet con il camion.
Io ne ho mangiato una teglietta
E anche il pasticcio era con i cardi
Cardi, poca besciamella
grana e latteria ogni strato
un pò di ragù
Per dire, non è che la Stefy sia forte in cucina. Vive a Firenze adesso e mi diceva che gli era venuta la voglia dei cardi. Lei è cresciuta in campagna e se li piantavano i cardi. Allora va dal fruttivendolo e gli chiede se puo prepararglieli lui, come fanno per i carciofi, i fondi ma il fruttivendolo gli dice di no, che non ha tempo e cosi non se li ha fatti neanche
Queste si sono storie. Chi se li cucina ancora i cardi eh? chi?
Conosco un posto dietro il vecchio manicomio. Li c'è un campo di cardi d'inverno. Vengono buoni quando prendono le loro belle gelate. Son passato di la un sera verso notte. Son andato sul campo e ne ho tirato su un mazzo.
Avevo un'amica a Milano. Mi regalò un cd. Lo misi sù tornando a
casa in macchina. Prima mi spiegò che era molto particolare ma che a me sarebbe
piaciuto. Lei teneva delle trasmissioni a Radio Popolare. Un'esperta. Questo è
uno di quei cd che definirei cult. Che non hanno in molti. In pratica questo
Gravin Briars, nel 71, mentre girava per Londra, filmando gente che viveva per
strada, per delle riprese che dovevano servire per un film, trovava dei tipi
che, in genere ubriaconi, quando si vedevano ripresi si mettevano a cantare.
Cose cosi, pezzi di opere, canzoni sentimentali. Uno di loro, uno che non beveva
si mise a cantare una canzone religiosa, “Jesus’
Blood Never Failed Me Yet”. "Il sangue di Gesù non mi ha mai tradito. Una breve
registrazione. Un ritornello. Gravin Bryars lo risentì a casa, poi. Quella voce
lo colpì. Portò il nastro in una sala di registrazione e ne fece un loop,
registrandolo su una bobina e, mentre registrava il nastro, uscì. Quando tornò
erano tutti la che ascoltavano ipnotizzati e commossi questo brevissimo brano.
Il potere emotivo della voce. Allora cominciò ad aggiungerci della musica,
un'orchestrazione in crescendo, diversa per ogni pezzo ma sempre lo stesso
ritornello. Non a caso fu Brian Eno il primo a produrlo e volerlo. Sul momento,
mentre correvo in autostrada ne rimasi deluso. Spensi il cd. Mi fermai ad un
autogrill perchè mi veniva sonno. Quel ritornello però mi echeggiava in testa.
Quando risalii in macchina lo rimisi su. Lo ascoltai fino a casa,
ininterrottamente. Milano-Treviso. Attraversai paesaggi che non avevo mai
vissuto ne visto a quel modo. Quel loop. Il canto di un uomo semplice,
dolcissimo e colmo di fede speranzosa. Non son tanto le parole, la sua fede. E'
la sensibilità di un animo. La bellezza e poesia dello spirito. Dura settantadue
minuti questo cd e quella frase si sentirà centocinquanta volte. Non ti stufa
mai. Dentro quel vuoto, una voce, gli occhi che si chiudono, la solitudine. Non
c'è alcuna retorica. Una semplice testimonianza. La semplicità di un canto nel
freddo della strada. Pian piano scalda anche te, ti fa compagnia, come un
braccio attorno ad una spalla, la canti assieme. Io gridavo in macchina
cantandola con lui. Mi sono commosso che, uno dovrebbe vergognarsi un po a dirlo
qua. Non è un cd che puoi ascoltare spesso, però ti rimane nel cuore per sempre.
Quel tipo la, il barbone, poi Gravin Bryars, tornò a cercarlo. Voleva mostrargli
il disco, la sua voce. Gli dissero che era morto.
Comincia cosi "I detective selvaggi". Non credevo neanche di averlo piu questo libro. Ero certo di averlo regalato. Ieri sera è caduto fuori da una catasta di libri e carte. Si vede che me ne sono comprato un'altro, poi, si vede.
2 novembre
Sono stato cordialmente invitato a far parte del realismo viscerale. Naturalmente, ho accettato. Non c'è stata cerimonia di iniziazione. Meglio così.
3 novembre
Non so bene in cosa consista il realismo viscerale. Ho diciassette anni, mi chiamo Juan García Madero, sono al primo semestre di giurisprudenza. Io non volevo studiare giurisprudenza, bensì lettere, però mio zio insisteva e alla fine ho dovuto cedere. Sono orfano. Diventerò avvocato. Fu questo quel che dissi a mio zio e a mia zia e poi mi chiusi in camera e piansi tutta la notte. O almeno una buona parte. Poi, con apparente rassegnazione, entrai alla gloriosa Facoltà di Giurisprudenza, ma dopo un mese mi iscrissi al seminario di poesia di Julio César Álamo, alla Facoltà di Lettere e Filosofia, e così conobbi i realvisceralisti, o viscerrealisti o perfino vicerealisti, come a volte gradiscono farsi chiamare. Fino ad allora ero stato solo quattro volte al seminario e non era mai successo niente, dico per dire, perché a ben pensarci succedeva sempre qualcosa: leggevamo poesie, e Álamo, a seconda dell'umore, le lodava o le polverizzava: uno leggeva, Álamo criticava, un altro leggeva, Álamo criticava, un altro ancora leggeva, Álamo criticava. A volte Álamo si annoiava e diceva (a quelli che in quel momento non stavano leggendo) di criticare anche noi, e allora noi criticavamo e Álamo si metteva a leggere il giornale.
Era il metodo perfetto perché nessuno fosse amico di nessuno o perché le amicizie si fondassero sulla malattia e sul rancore.
Lou Reed Ft. Antony Hegarty Perfect Day dall'album "The Reaven"
Da bambino sollevavo le pietre, i sassi
Avevo scoperto i piccoli mondi
Imparare a stupirsi di quello
che è sotto gli occhi di tutti
Li dove c’è una linea fragile di confine
dove la brina puo far ancora rumore
Ed è come quasi scavare nell’acqua
Tu sei la che all’improvviso ti pare
che il mondo si sia disabitato
Solo in quel piccolo mondo
Solo tu con i tuoi piccoli occhi
come chicchi di caffè tra i denti
a scoprire tesori sotto le pietre minuscoli eventi
case nascoste da alberi e cespugli
ponti che si congiungono a piccole chiese
lunghe ombre si proiettano sul campo
una sagoma incappucciata sfila
lungo un muro di sassi
le campane suonano nell’ora del pasti in quella luce bianca scolora con un brusio
grilli cicale lombrichi insetti volanti Non sono mai stato più felice di allora. Là non si può ritornare e neppure raccontare com'era colmo di beatitudine quel giardino del paradiso.(1)
Quell'albero grosso era mio padre
che vegliava sui mostri che abitavano le mie storie
che giocavano nella mia mente
come la storia storia degli Usher, di Poe la cui casa bruciò nella sua testa e dell’amore per sua sorella la cui morte lo fece impazzire dell’omicidio d’uno sconosciuto e di quello di un amico dei richiami dagli abissi infernali che sembrano non aver mai fondo (2)
Un albero grosso, montagna di roccia
e là potevi sederti sulle ginocchia
e allora i giganti, i mostri, chiromanti sporchi e fetenti
è li che sapevi trovarli, sotto quei sassi
Sassi che han saputo venire dalle montagne
Far tutta quella strada per lasciarsi guardar sotto
offrire asilo e riparo a piccole insignificanti bestie
e poi finire magari tirati dentro il fiume o un laghetto
Che la sul fondo poi c'è tutta una genia di altri mostri
di Tarkovskji, di Poe, Andersen, Lewis Carol
Bisognava fargli la punta allo sguardo. Diventare bambini specializzati, bisognava. E darci dentro a costruirti mondi segreti. Con i mostri che ti porti dietro fin sotto le coperte e te la, con gli occhi spalancati, bardato a sguainare spade, fughe e tempeste.
Non è che proprio lo capivi bene
quel mondo dei grandi e piccini
La dissonanza che strideva, grattava
che li vedevi scannarsi invece di amarsi
E allora mangiateli vivi, dicevo ai miei mostri.
Da dentro guardavo sotto i sassi
ed era come stare dietro grandi finestre
E' da li che magari vedevo un cielo intero
sparire dentro l'intrico di un bosco.
Era vita strappata quella che sentivo la intorno
Animali sguarniti che avevano perso la direzione.
Questa storia riaffiora quando trovo Quà da "La donna camèl" , quella del meccano negli anni del rock. Un racconto molto bello. Da leggere.Grazie donna camèl (con l'accento sulla e)
Negli anni del meccano e del rock
Negli anni del rock, quelli quando per noi dellababy boommer generation era cominciato quel rock, magari trovavi ancora il bambino con la cassetta dei gelati appesa al collo, a venderli allo stadio, ai giardini, alla stazione. Un cornetto, un ricoperto pralinato. Non c'era in giro nessuno in quella domenica d'agosto e il ragazzino s'era seduto accanto a mio padre, sulla panchina. Mio padre non voleva il gelato. Oggi era meglio se non venivo, aveva detto il bambino. Quanti anni hai? gli chiese mio padre. Undici, gli disse. E mio padre gli disse, come mio figlio. Me lo disse poi alla sera, di quel bambino. Vedi, mi dice, lui era in giro a lavorare, non come te che vai a Jesolo a fare i bagni con tua mamma. E allora? ho pensato. Era perchè li aiutavo poco in osteria, a stare al banco. Mia mamma aveva preso la patente e guidava una millecinque Fiat ed era stato mio padre ad insistere che mi portasse, che andasse da sola con me, come per una cosa di emancipazione. Io stavo la ed avevo tirato fuori la scatola del meccano quando lui ha preso a raccontarmi di quel bambino con la cassetta dei gelati. Alla radio si sentiva Lady Madonna dei Beatles. Poi quello fu il primo disco che mia madre mi comprò assieme al mangiadischi. Un mangiadischi rosa. Non l'ho mai capita questa cosa del mangiadischi rosa. Si vede che non ce n'erano altri, o che era di occasione. Ce l'ho ancora, giu da basso in taverna, con i suoi dischi di allora. Mi ricordo di questa storia, di mio padre che mi parlava di quel ragazzino. Suo padre, quello del bambino, vendeva gelati anche lui con un carrettino e andava per i paesi. Siamo tre fratelli, aveva detto il bambino a mio padre. I soldi non bastano mai. Mio padre era trasognato e, quando mi raccontava questa storia il suo sguardo non so dove guardava. Mi ha detto che il bambino aveva posato la cassetta per terra. Aveva infilato le mani nella tasca e tirato fuori un pacchetto di figurine. Le aveva messe in fila sul bordo della panchina. Poi gli dava dei colpetti col dorso di un dito e cosi cominciò a farle volare di sotto. Quelle che cadevano le une sopra le altre le prendeva e le metteva in un mucchietto a parte. Queste vincono, aveva detto il bambino guardando mio padre, come per spiegargli il gioco. Non so perchè avesse quello sguardo quando mi raccontava del bambino con la cassetta dei gelati e, in tasca, le figurine. Chissà cosa vedeva. E tu invece hai il meccano eh? Come dovessi sentirmi in colpa. Chissà cos'avevano che trovavano sempre una scusa per farti sentire in colpa o che avevi piu degli altri e che dovevi avere riguardo e cosi via, cosa avevano in quegli anni del rock, che non se la spassavano mica male neanche loro, in quegli anni del rock. Insomma è stato poi quel giorno del bambino con la cassetta dei gelati che ho chiesto a mia madre se mi comprava anche a me il mangiadischi. Quel giorno al laghetto ce n'erano un sacco che suonavano a manetta di mangiadischi. C'erano le batterie di scorta sugli asciugamani. Cose cosi insomma, degli anni nostri del rock. Poi è cosi che ho imparato l'inglese. Lady madonna Lady Madonna children at your feet Wonder how you manage to make ends meet. Who finds the money when you pay the rent?<7i> Mi vien da ridere perchè allora me le inventavo le parole e facevo finta che erano vere, quando cantavo facendo le mosse davanti lo specchio in camera mia. Non so ancora cosa avesse nello sguardo mio padre quando mi raccontò questa cosa. Quello sguardo la che gli vedevo ogni tanto negli anni del rock. Sarà che era giovane anche lui.
Il lato b di Lady Madonna ha questa canzone di George Harrison.
Arrive without traveling See all without looking Do all without doing
Arriva senza viaggiare Vedi tutto senza guardare Fai tutto senza fare
L'idea originaria della canzone è stata influenzata dal ritiro indiano presso l'"ashram" del "Maharishi Mahesh Yogi", e dalle consequenziali lunghe meditazioni e preghiere.
Il tema deve la sua ispirazione alle atmosfere musicali orientali.
Il testo prende spunto dal capitolo 47 del "Libro della Via e della Virtù", ovverosia uno dei testi fondamentali scritti da Laozi, il padre fondatore del sistema religioso taoista.
La mia vita in sei parole.
Faccio giochetti cosi, quando in macchina metti torno o vado al lavoro.
La tua vita in sei parole; come un'epitaffio.
Mi ha fattto una certa impressione questo fatto del come si possano condensare tanti anni in una specie di haiku. Sentire la vita stringersi (non il giro vita però) come un maglione che si infeltrisce mentre ce l'hai addosso e te lo devi levare in fretta perchè proprio non puo startici addosso. Le scrivevo sul cellulare. Mi piace l'idea. Ne troverò delle altre e rifarò il post. Metto qua sennò poi mi dimentico
Mi son venute queste:
(alla cena dei bigoi in salsa e del baccalà. Da Bruno si può fumare. L'osteria chiude per noi)
La mia vita in sei parole
Non ho saputo far di meglio
Non mi sono mai impegnato abbastanza
Per vivere dovevo metterci piu coraggio
Potevo imparare a preparare il baccalà
Avrei dovuto leggere Marcel Proust
Cantare"Era meglio morire da piccoli"
Imparare a memoria "Love me tender"
Poi ho pensato che stavo tirando su una sfilza di rammarichi
Non volevo potesse sembrare una lagna
In sei parole sono stato fortunato
Non ho preso mai un tumore
Ho avuto molte piu donne d'altri
Ho imparato a suonare la tromba
Non sono mai diventato un padre
(Ecco, questo non so se metterlo tra quelli sopra o questi?)
Ho costruito aquiloni e scritto poesie
La mia vita in sei parole, e gia queste son sei parole. Farci star dentro una vita intera. Una biografia essenziale. Ecco, a me provoca sbigottimento, mi si mette in moto un loop in testa. Stessa cosa mi succedeva da bambino quando pensavo alla parola" infinito", al concetto di qualcosa che non finisce mai, ecco mi impressionava. Anche dire "Una vita in sei parole" mi fa venire un certo sgomento.
Come avrebbe voluto vivere in sei parole:
Vivere senza mai abbassare la guardia
Uno che non restò a guardare
Non lo presero mai alla sprovvista
Uno che non perdeva un secondo
Non lasciò mai nulla al caso
Non dimenticò mai niente e nessuno
Non aveva avuto santi in paradiso
Urbis et orbis schegge di vetro ti vestono di buio e riluci di lune di riflessi dischiusi sospesa nel niente di un cuore indeciso non puoi fare altro Aspetta aspettare che venga reciso
Cartolina da San PietroburgoLe pubblica "Internazionale" e sono brevi reportage (Graphic journalism)
Sono molto efficaci, fulminee. Ecco, qua, con questo (se si puo chiamare racconto), secondo me, coglie un'aspetto dell'animo poetico di Anna Achmatova. L'autrice si chiama Joanna Hellgren. Ha una faccia buffa. vive e lavora a Stoccolma. Il suo ultimo libro si chiama Frances
"Con la mia amica Juhyun stavo passeggiando senza meta per le strade di San Pietroburgo. Ci sentivamo come due bambine che non trovano più i genitori (ma senza panico). Le distanze non smettevano di stupirci: mancavano solo pochi isolati! E invece gli isolati di Susse si susseguivano senza fine, racchiudendo nelle loro viscere altre case e altri cortili. Alla fine ci siamo trovate davanti alla casa della fontana. Il museo di Anna Achmatova, poetessa dell'età d'argento. Delle donne minute ci hanno dato delle audioguide indicandoci il percorso. Ecco al finestra del bagno, l'occhio dell'appartamento, che rivelava le visite non gradite. Ma cosa può fare un occhio?
Nell'ingresso era appeso il soprabito di Punin. L'amor perduto. "Qui!" dicevano le donne sedute in ogni angolo. "Guardi qui. Ascolti ora." O almeno credo dicessero questo. Hanno trascorso tanti di quei giorni nella casa della fontana. Conoscono i suoi dolori e i suoi inquilini. trascinati via di notte. Per loro Anna Achmatova non è solo una poetessa. E' diventata un'amica. Penseranno che nessuno conosce la sua poesia come loro. "Guardi quì. Non si perda i fiammiferi. Sa a cosa servivano?"
E l'audioguida spiega: dietro le tende tirate Anna Achmatova legge le sue poesie all'orecchio di un'amica dalla voce squillante. L'amica nasconde i versi nella sua mente, brucia il foglio di carta e porta via le poesie dalla casa della fontana."
Anna Achmatova (Bol'soj Fontan, 11 giugno1889 – Mosca, 5 marzo1966) è stata una poetessarussa; non amava l'appellativo di poetessa, perciò preferiva farsi definire poeta, al maschile. Fece parte della Corporazione dei poeti, un gruppo acmeista fondato e guidato dal marito.Espulsa dall'Unione degli Scrittori Sovietici nel 1946 con l'accusa di estetismo e di disimpegno politico
La donna branzino prende un te nella vasca con gianni celati
Sono stato nel deserto stanotte a prendere un tè con i miei fantasmi. Un subbuglio emotivo; pensieri e sospetti. Poi, stamattina un sogno. Ero tornato a letto e messo a leggere un racconto. Il racconto era quello che si vede il titolo nel post di Gianni Celati e la kenzia : " Novella dei due studenti". Un racconto metafisico, spiazzante. Me lo dico tante volte che è meglio leggere un giornalino o, al limite qualcosa di spassoso quando ci si mette a dormire. Invece quella storia deve avermi messo in contatto con il mio sotterraneo conturbante. Poi mi addormento di quel sonno leggero che riprendi alle sette. "...sentiva dentro di sè una specie di gorgoglio che lo rendeva sempre incerto. Quel gorgoglio doveva essere la sua anima incerta e tremolante, come ha scritto nel diario: "Forse l'anima è qualcosa come l'acqua, che arriva ad una strettoia fa dei mulinelli, e poi se trova un buco gorgoglia. Forse i pensieri fanno la stessa cosa quando cadono nel buco dell'anima, cioè precipitano, non si riesce piu a trattenerli, e dopo viene su il gorgoglio." (pag. 98)
Music by Hector Zazou feat. Cale/Sylvian, 'First Evening (Sahara Blue)'.
Il sogno Ecco poi ho preso sonno. Non sprofondavo ma nuotavo a pelo. Ho sognato che ero in questo posto, sopra una roccia, bel alto sopra un fiume. oppure era un'argine..no, una roccia e pescavo. C'era un sole forte. Era ancora estate. Vedevo l'acqua trasparente dall'alto, il fondale basso, limpido, i sassi sul fondo. Ci sono dei pesci che vedo guizzare, lenti o, all'improvviso repentini scattano, si intrecciano e poi uno abbocca, lo sento tirare. Lascio scorrere la lenza e lui si allontana, poi lo attiro verso la roccia. La solita lotta tra pescatore e la preda. Infine lo tiro su. Gli altri pesci non si son mossi e guizzano ancora nel posto, indifferenti alla lotta che uno di loro sta compiendo. Lo tiro su temendo si rompa il filo. Son grossi. Quando è su salta e si dimena sulla roccia. Apre la bocca, inaspettatamente larga, quasi una bocca umana con labbra protese. Da quelle labbra spalancate esce acqua a getti come quelli di un irrigatore da giardino, alti, potenti, a spruzzi. Ad un certo punto da quella bocca escono dei suoni, dei gorgoglii, come un lamento, gutturale, soffocato. Beh, ero un po sgomento. Volevo levargli l'amo dalla bocca, prenderlo in mano, spaccargli la testa, però avevo timore. Aveva qualcosa di umano. Poi il sogno continua, chiamo un'amico che vien la, lo guarda come fosse tutto normale e mi dice che è un branzino. Come un branzino? nel fiume? poi delle cose senza importanza.
C'è tutta una traccia, una pista che convoca a sè l'acqua. Prima di andare a letto, un filmato che scorre. Una donna me l'ha inviato La vasca da bagno, l'acqua che scivola dentro la schiuma Una donna in piedi nella vasca. Indossa un corto vestito leggero, bianco che immergendosi poi, diverrà trasparente, aderendo alla pelle, il seno prorompente, i capezzoli turgidie tutto il resto, i fianchi stretti che scivolano su gambe scultoree, adunche, perfette e il solco che le divide. La si accarezza con la mano, fuggevolmente. La donna parla sottovoce la schiuma dei giorni nelle intemperie tiepide che le sfuggono di bocca. Tutto in quel che scorre confluisce.
Il pescare, nei sogni dicono attenga all'analisi di sè e di cio quel sè lo circonda, alla ricerca di chiarezza. Tendere un filo, lanciarlo, lasciarlo scendere verso il fondo alla ricerca di catturare qualcosa che sfugge e che è sommersa. Un significato introspettivo fondamentalmente che cerca di catturare qualcosa che sfugge alla comprensione, e questo porta a discriminare e scegliere. Dicono sia un simbolo che compare nei momenti di cambiamento, di trasformazione. " ..forse l'anima è fatta di tanti pezzi tenuti assieme da un intonaco, e se l'intonaco crolla, tutti i pezzi non stanno piu assieme. Allora si vorrebbe che gli altri raccogliessero i nostri pezzi per tenerli come reliquie" (pag. 90) Mi sentivo un pò cosi quella mattina, e poi cosi tutto il giorno. Con pensieri che cadono nel buco dell'anima. Con queste sensazioni di spaesamento dove un racconto e un sogno, una donna dentro una vasca da bagno vestita mi rendevano inerme. In questa "Novella dei due studenti" ad un certo punto trovano il professore, il grande maestro che è invidiato e bramato da tutti ed a un certo punto dice a loro che "..lui è troppo consapevole che gli stati delle cose intorno a noi sono innumerevoli, incalcolabili, infinitamente confusi, e che ogni scelta dipende dal caso o dalle abitudini create per suscitare determinate reazioni. Personalmente dice, vorrebbe esistesse una matrice pitagorica del mondo, che sottragga ogni stato delle cose all'effimera confusione dei sensi, che avrebbe desiderato un modello preciso e inoppugnabile, come le traiettorie dei corpi celesti, ma si era accorto della limitatezza di tutti i modelli.." e cosi via
Il sogno si aggrega a quella dimensione che si divincola e scivola via dal reale, l'irreale lo contamina e s'infiltra, rendendo tutto improbabile. La donna branzino sulla vasca si dimena, s'immerge e riaffiora, si spoglia e le restano le squame, argentee, vivide, luccicanti. Lei è un guizzo che risale. Quell'acqua della vasca tracima e m'inonda, riempie ogni cavità ormai e la donna branzino conosce l'acqua, li mi attira e mi imprigiona ed è esser suo che voglio.
The Durutti Column - Silence
La donna branzino sussurra queste parole
Acqua buia attacca quel cielo,sotto assedio agate e perle Nessuna linea di respiro solca le mani Un tumulto tra i seni di bianche perline sobbalza,strattona la pelle fuori dal guscio Nuda ,non sa cucinare Di lino ebraico le rose ornavano la veste bianca Miriade di filamenti scoprono la vocazione,quel filo di seta immergono L'acqua si chiude,non è mai stata pura cosi - cosi pura- La senti respirare eccitata Eccitabile Sotto la schiuma dei giorni che sfiorano Lenti Lievi Audaci divorano Si allarga si assottiglia la luce viene,và Lamentosa Respiro a respiro palmo a palmo conosce la diga fino a versarsi Sa dove il fiume va in piena,insondabile azzurro Si tira in su nell'aria ,scintilla la pelle branzina spumeggia si sfila
Immagini, quadri di vita vissuta lungo lo scorrere del "Grande Fiume". Sentimenti e drammi si mescolano con lo scorrere dell'acqua. Quattro dipinti e il fiume Po fanno da sfondo al rapporto tra due donne, unite indissolubilmente da un legame d’ amore. La fragilità dell’una è motivo di isolamento e fuga e a nulla può il tendersi dell’altra, nemmeno nel gesto estremo che la allontana per sempre.
Da questo m'ispiro per un'altra storia
Poi più nulla, mentre io venivo.
Le chiatte che stazionano immobili sull'acqua Lo scorrere lento e immutato, come passi nell'ombra, dell'acqua trascinano senza clamore storie dimenticate. Offuscate e tremule nelle nebbie vagano senza requie. Come tutte le mattine usciva puntuale, camminando si allontanava lungo il fiume, l'argine, le carpe, i riflessi del cielo immobile passeggiava indolente. La seguivo di nascosto, da distante, annusavo la sua scia. Camminava con movenze che spostavano l'aria e ondeggiava il suo vestito leggero sussurrando. Oggi invece sono andata sul posto prima che arrivasse. Lungo la riva i salici e i pioppi. Tra questi il fico. Era la che andava a sedersi ogni volta, come un rito. Toglieva polvere dai ricordi. L'aria che scorreva lungo il fiume portava via ogni incrostazione. Che non si indurisse al sole. All'ombra del fico si sedeva e rinverdiva quei pensieri che altrimenti si sarebbero scoloriti dall'usura. Non voleva si sgretolassero nei bordi, ne che qualche crepa ne tratteggiasse i contorni. Nessuno sapeva del suo segreto. Lanciava dei piccoli pezzetti di legno nell'acqua per vederli galleggiare. Un giorno, sotto quel fico aveva fatto all'amore per la prima volta. Era un camionista di Rovigo, uno che poi era sparito. Quel camionista l'aveva fatto anche con me, solo che lei era rimasta incinta. Non so se lei lo venne mai a sapere di me e Domenico, il camionista. Si portava sempre sotto il fico, dentro un cannovaccio, la colazione. Quel posto non aveva messo distanza tra l'adesso e il prima. Rami e foglie che si affollavano sopra la testa ed io invisibile, li con la presenza della vegetazione dentro il corpo, la stavo a guardare. La vedevo con il suo sorriso, mangiare pane e uova sode, la marmellata nel vasetto e il suo sguardo brillare di beatitudine. Ero sdraiata a terra in quell'ombra che confondeva. Mi accarezzavo piano sentendo l'aria tra le foglie La mano in mezzo alle gambe sembrava placare ogni furore. Non so lei dove sia stata per ritrovarsi, ma avrei voluto trovare un pertugio in cui passare e raggiungerla ancora, come una volta. Una cornacchia tra le foglie mi fece trasalire di spavento. Gracchiò scomposta e il suo occhio vigile capì qualcosa. Anche lei si girò per un'istante. Non so se mi vide. Non ci badò. La mia mano tra le cosce riprese ad accarezzare ed io fremevo a vederla succhiarsi le dita impiatricciate di rossa e densa marmellata. Poi lei si alzò il piedi e si passo le mano sul sedere a tirar via l'erba Si ricompose immobile, guardava l'acqua e io sentivo il suo sguardo fiero. Prese a camminare verso la riva e poi dentro l'acqua, scivolare. E sembrava dolce, cosi semplice, quel scendere, il lasciarsi andare. Mi si intorbidi lo sguardo e la luce attenuava il riverbero e ogni suono si ottundeva. Avrei voluto raggiungerla e conoscere la sua lingua a me, adesso straniera. I suoi capelli neri come alghe di guaiane brillarono per un altro istante a pelo d'acqua. Poi piu nulla, mentre io venivo
Questo post era dimenticato nelle bozze. Era marzo quando lo misi assieme.
A me ricorda mio nonno in questa foto. Vittorio, a volte lo vedevo con lo stesso sguardo perso, che non sembrava avere parole ne precisi pensieri. Però so che vedeva, solo sentendola dentro la poesia. In realtà è Emanuel Cavalieri.
Erri De Luca dice che, la nostra è una piccola lingua. Nel senso che è parlata solo da noi e una piccola quota di svizzeri. Oltre a questi fu parlata dai nostri emigranti in terre d'esilio per scampar alle miserie. Tra questi qualcuno scrisse, anche se nessuno se lo ricordò fintanto che...Scrisse poi quel che scrisse nella lingua di quella terra che l'ospitava: in inglese. Al tempo erano versi di un italiano che un altro italiano doveva leggere in un'altra lingua:
"Che passino il pettine tra i loro capelli Le grottesche commesse di bottega Secondo qualche foggia buffa Che si dipingano le labbra In uno strillo rosso Che impolverino quelle loro facce a secco Io penso a loro Davanti ai loro specchi Che cercano di fare una poesia"
Emanuel Cavalieri, dice De Luca, è uno dei nostri sprechi. Lo definirono un Rimbaud italiano, era qualcosa che ti prendeva fuoco tra le mani, una fiamma bruciata in fretta, una saetta, un'urlo. Una specie di Jim Morrison, uno di quelli che non dovrebbe superare i 27 anni.
Quando usci per l'Adelphi, per la prima volta tradotto in italiano, nel 78, lessi la recensione sul Manifesto. Me lo portai via quando con la macchina Gigi, un anarchico come Valerio e Franco, un comunista come me, andammo a Poppi, in una comune, a trovare della gente che conoscevano loro. Loro avevano una biblioteca in quella casa in mezzo ai boschi. Alla sera lessi delle poesie dii Carnevale, mentre stavamo la a bere vino e farci canne. Poi glielo lasciai il libro. Non l'ho piu ricomprato. Dovrò farlo.
I Movie Star Junkies cantano una canzone di Emanuel "Almost a God"
" È il 1914, un italiano a New York. Si chiama Emanuel Carnevali ed è di origine fiorentina. Diciassette anni, «povero essere dalla testa grossa e dalle fragili spalle», si porta dietro una travagliata vicenda familiare. Una coppia ferocemente "scoppiata", quella dei suoi genitori, e prima ancora che lui nascesse: la mamma, Matilde Piano, buona e sensibile, ma in gravidanza diventata schiava della morfina; il babbo, Tullio, violento, geloso, capace, quando vivevano insieme, di picchiarla per ogni più piccolo pretesto. Matilde muore nel 1907, affidando il bimbo alle cure della sorella Melania, anche lei con una storia di sofferenze e di abbandoni: ha due figli, Federigo e Leonardo, nati da padri diversi e irresponsabili. Uno scenario del genere sembra fatto apposta per partorire fremiti di rivolta. Mescolati a una nativa, istintiva tensione poetica alta e a un'oscura voglia di verità e di assoluto. Come dire, il seme del Novecento più creativo e distruttivo. Ecco perchè forse va in America" Ci rimarrà otto anni. Un giorno scriverà una lettera ad un altro poeta: "I want to become an american poetry", voglio diventare un poeta americano. Tornato in italia continuerà a scrivere in inglese, ma come fosse solo un dialetto.
Mia madre (Se clicchi la appare una pagina molto bella, scritta ricordando lei) la madre, vera «Mater dolorosa» a cui va tutto l’affetto e la gratitudine dello scrittore per le sofferenze patite a causa della famiglia. Alla figura materna è da accostare quella della zia, a cui egli afferma di dovere l’educazione dell’anima: «Non avevo miglior confidente, miglior compagno, nessuna persona più cara di lei. Ho l’impressione che fu lei a fare di me un poeta, anche in quei lontani giorni dell’infanzia e dell’adolescenza»
I "Massimo volume" dedicano una canzone a Carnevali "Il primo dio"
"È una vita in corsa: c'è da dire, da fare, da scrivere. A Chicago, dove si è trasferito, in una memorabile serata-party con gli altri artisti di Others, Emanuel, conosciuto come "the black poet", prorompe in una infuocata invettiva «contro i tecnici e i professionisti della poesia». Suscita scandalo, ma anche commossa ammirazione: ad esempio in William Carlos Williams che da quel provocatorio talento è colpito e incitato a percorrere nuove strade. Ma la "dannazione" incalza Emanuel. Con la foga autodistruttiva, la vita in strada da barbone mantenuto dalle prostitute, la sifilide, l'internamento in ospedale. Dove andare, come salvarsi? Per qualche tempo si rifugia
sulle rive del lago Michigan e l'assalto del male pare allentarsi. Ma l'abisso è sempre lì, atrocemente invitante. Non può lavorare, le mani gli tremano. Gli amici gli pagano il biglietto della nave che lo riporterà in Italia, dove passerà da una casa di cura all'altra, col marchio della "psicopatia degenerativa" o "encefalite letargica". Eppure Emanuel non è finito, non finisce. Anzi, nel 1925 è tra i collaboratori di The Quartet, fondata a Parigi da Ernst Walsh, insieme a Gertrude Stein, Hemingway, Pound. Ed è proprio Ez a fare il nome di Carnevali in un'intervista a un giornale italiano, a commissionargli la traduzione dei primi Cantos, a lanciare un appello per quella giovane folgore spersa nel buio: un appello accolto dal ministro Federzoni che lo fa trasferire in un ospedale di Roma, dove si sta sperimentando una nuova terapia contro l'encefalite. Ormai, però, Emanuel è "una nera caverna", "una stanza chiusa". Dove il destino entra con un ghigno, facendolo morire strozzato da un boccone di pane l'11 gennaio 1942. Pane amaro e morte annunciata: una verità "cattiva", coltivata di poesia in poesia."
Mario Bernardi Guardi
Il primo a parlare di lui, in Italia, fu Ezra Pound, durante un’intervista rilasciata a Carlo Linati per Il Corriere della Sera: «Adoro quel tipo - dichiarò Pound - in America tutti scrivono come lui». Precursore della beat generation e capostipite degli scrittori italo-americani alla John Fante
. Dopo la morte prematura di Carnevali, sopragiunta nel ’42, su di lui e sulla sua opera, solo il silenzio, fino al 1978, quando Adelphi pubblica Il primo dio (Poesie scelte- Racconti) a cura di Maria Pia Carnevali, sorella e curatrice degli scritti di Emanuel.
Emanuel, vive l'avventura della creazione della dissipazione, con ebbrezze e furori che evocano Rimbaud e anticipano la "beat generation". «La poesia è la vita», proclama. La sua urgenza di "vero" lo spinge a scavare nel cuore della metropoli, in una cerca affannosa. Deve svelare, svelarsi. Non è questo lampo, la poesia? Gli incubi del passato pesano, fanno sanguinare il presente: «La follia verrà a sedersi accanto a me/ e mi passerà/ le mani nei capelli». Negli intensi "Cenni biografici" che ha stilato, Francesco Cappellini evidenzia questa oltraggiosa oltranza di Carnevali, ma ce ne mostra anche l'energia propositiva, perché Emanuel entra in contatto epistolare con i più importanti scrittori italiani del momento - Palazzeschi, Govoni, Saba, Slataper, Soffici, Papini - e per primo li fa "sbarcare" in America traducendoli in inglese.
Carnevali sostiene una concezione della poesia che non sia mera tecnica e lavoro di superficie, ma derivazione diretta dall’umanità della persona, intesa come totalità, nella sua vicenda biografica, fisica e psicologica.
(Questa qua sotto è giusta per il post della zia)
Le sue labbra sono rose
che imputridiscono nell’acqua. Le sue palpebre due avvizzite viole. I suoi occhi sono pozzanghere. La sua voce è quella di un uccello mentre lo strozzano. La sua giovinezza, passando, indugia nelle sue mani. Esse si librano, fluttuando, come due farfalle sul cadavere della sua carne. C’è un capriccio sinistro in lei, come di una bocca morta che sorrida. Le sue gambe ben tornite raccontano una impudente bugia. La sua anima giace nel disordine di un’orgia, sulle cui ceneri e gli sparsi avanzi pende, come fili di fumo azzurro, una eleganza di piccoli gesti. Marzo 1923 (Il Primo Dio)
Il giorno mi pesa addosso come una tonnellata di fumo. Le cose già fatte sono cadaveri che riempiono di fetore le stanze grigie dei miei ricordi. Il futuro è una fila di bambini nati morti. La pozza dell’oblio è fangosa. Solo ricordi in lenta marcia avanzano lungo la strada dell’oggi. Cielo grigio per ridestarmi in un momento. Ma un sonno tetro è il programma per oggi: sonno che sale dal cuore come un gas nero. Io so che per avere dormito a lungo i morti hanno ripreso forza. In giorni come questi spalancano a calci le loro tombe e ne balzano fuori con eleganza. Sussurrano orribili segreti l’uno all’altro e a me. Portano i loro sudari e li scuotono animosamente. O Divinità del terrore e della malinconia vienimi in aiuto! Ho ancora baci sfioriti per te, baci che non voglio buttare via perché sono molto povero, distaccami dai miei ricordi. Essi mi inquietano tanto che il sonno sussulta e fugge, sussulta e fugge